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22 Luglio 2022

I RISCHI PSICOSOCIALI NELLO SMART WORKING: TECNOSTRESS E SOLITUDINE

Se nelle attività in smart working i rischi psicosociali “sono spesso trattati alla stregua di una tematica di secondo piano”, in realtà “la remotizzazione del lavoro, accentua molte di queste criticità e ci pone davanti alla necessità di affrontarle in modo aperto proprio attraverso la comunicazione e la formazione”.

E “se anche lo smart working impone un ampio ricorso alla digitalizzazione, questo non implica necessariamente l’estraniamento, l’isolamento o la frustrazione. Si può lavorare (e si deve) in modo agile favorendo un’interazione sociale più ricca ed equilibrata”.

A ricordare in questi termini l’importanza di affrontare correttamente, anche nel lavoro agile, i rischi psicosociali, è una intervista all’ingegnere Alessandro Negrini, uno degli autori del documento CNI “ Linee di indirizzo per la gestione dei rischi in modalità smart working”, curato dall’Ing. Gaetano Fede (Consigliere CNI coordinatore GdL Sicurezza), dall’Ing. Stefano Bergagnin (GdL Sicurezza CNI) e del Gruppo Tematico Temporaneo “Smart working e lavori in solitudine”.

Nel documento si segnala, infatti, che “virtualizzazione” e “remotizzazione” dei rapporti di lavoro/collaborazione vengono ad estendere i confini del tradizionale luogo di lavoro “riconducendoli ad una dimensione che va ad includere la sfera privata del lavoratore stesso nonché la sua immagine sociale mediata attraverso gli strumenti digitali che utilizza”. E in quest’ottica gli usuali confini tra “pubblico” e “privato” “si fanno indistinti, imponendo la necessità di educare e favorire un’interazione sociale quanto più equilibrata tanto più la portata delle opinioni e dei giudizi personali rischiano di essere fraintesi, amplificati e distorti generando rischi psico-sociali dalle conseguenze del tutto impreviste”.

Smart working tra pubblico e privato: una smart policy

Nel documento CNI si indica che è opportuno formalizzare, a livello aziendale, “una politica propositiva (smart policy) da adottare anche in remoto in base ad un approccio alla comunicazione improntato a principi di coerenza e di moderazione”.

Un approccio “non dissimile dalla stesura di un tradizionale ‘galateo (web etiquette o net etiquette)”.

E tra le buone prassi da previlegiare, “si suggerisce di:

  • non condividere, pubblicare o divulgare immagini e/o filmati che includano informazioni sensibili legate alla propria attività lavorativa, anche in maniera indiretta” (ad esempio “foto e/o filmati di natura personale che possono includere accidentalmente in secondo piano dettagli di documenti, luoghi, attrezzature ecc. coperti da accordi di riservatezza e/o dal segreto professionale”);
  • non geolocalizzarsi in contesti inappropriati;
  • non denigrare pubblicamente la propria azienda, i colleghi e/o i propri collaboratori;
  • non utilizzare gli strumenti e/o i canali digitali di lavoro per condurre discussioni di natura intima (o comunque privata), ovvero per intavolare polemiche politiche, religiose, sportive ecc.”.

Smart working: rischi psicosociali e stress lavoro-correlato

Al di là di questi aspetti connessi a web policy e web etiquette, veniamo al tema della prevenzione del rischio psicosociale.

Gli autori della pubblicazione segnalano che è ormai appurato che “lavorare in privato spesso, se non quasi sempre, senza momenti di condivisione o rapporti diretti non solo con i propri superiori ma soprattutto con i colleghi, comporta delle conseguenze non trascurabili”. E questa mancanza di condivisione non si manifesta soltanto per l’assenza di uno svolgimento condiviso delle mansioni lavorative, ma anche per l’assenza anche di altri contatti diretti, come quelli che avvenivano, per esempio, “in pause caffè conviviali o in mensa”.

Si indica poi che esistono “categorie di lavoratori maggiormente esposte al rischio tecnostress, specie per quanto concerne le professioni che rientrano nell’area STEM” (Science, Technology, Engineering and Mathematics) e/o “in quelle della comunicazione (es. giornalisti, cronisti ecc.), essendo categorie destinate a confrontarsi con un uso sempre più invasivo delle tecnologie digitali”.

Per un approfondimento di questo rischio rimandiamo alla lettura dell’articolo “ Tecnostress: è possibile ridurre il rischio?” elaborato dallo psicologo del lavoro Massimo Servadio.

Quando si parla di tecnostress – continua il documento CNI – si fa riferimento ad un rischio di sovraccarico informativo e cognitivo “che può causare varie conseguenze a livello psicofisico tipiche del burnout, quali ad esempio: ansia, ipertensione, attacchi di panico, depressione, insonnia, calo della concentrazione, disturbi gastrointestinali e cardiocircolatori, cervicalgia e sensazione di vertigine, disturbi dell’alimentazione e carenze nutritive, alterazioni comportamentali, disturbi della sfera emotiva e relazionale”.

Dunque il lavoro a distanza, e in buona parte anche il lavoro agile qualora venga svolto per la maggior parte del tempo lontano dalla sede aziendale, possono comportare una “sorgente di rischio stress lavoro-correlato”.

Come gestire le possibili conseguenze derivanti dalle “situazioni che comportano l’assenza di contatti diretti con colleghi o clienti” e da modalità di comunicazione con caratteristiche che limitano il coinvolgimento ravvicinato tra le persone?

Si suggerisce che è importante mantenere, comunque, “le possibilità di avere momenti comuni”, sia a distanza che “soprattutto, per quanto occasionalmente, tramite la programmazione di periodici contatti diretti tra collaboratori o in generale tra lavoratori che operano nello stesso ambito” o con mansioni che necessitano di confronto sugli obiettivi e sull’andamento dei compiti aziendali.

Non si devono sottovalutare – continua il documento – “le conseguenze psicologico-relazionali che potrebbero portare un importante incremento delle patologie ansioso-depressive evidenziate, ma anche possibili compromissioni delle capacità empatiche e cooperative”. Infatti lavorare a distanza in modalità smart working “comporta una mutazione del soggetto ‘altro’ che diventa un individuo indefinito dietro uno schermo, diventando complicato attribuirgli sentimenti ed emozioni ed entrarci davvero in contatto”.

Smart working: lavoro in solitudine e medico competente

È importante che l’azienda mantenga alta l’attenzione anche sulle conseguenze che può avere lo smart working se praticato in modalità di lavoro in solitudine, “caso frequente per lavoratori che sono spesso fuori sede senza alternare momenti di passaggio in azienda o che non utilizzano spazi condivisi in co-working”.

Infatti vivere un isolamento costante per alcune persone “può comportare stress lavoro correlato” e per tale motivo è importante che il medico competente tenga in considerazione questo aspetto. Dovrebbe essere proprio il medico competente “a consigliare al datore di lavoro le migliori soluzioni organizzative per evitare, per i lavoratori a maggior rischio, lo svolgimento della mansione in modalità di lavoro agile sempre in condizioni di solitudine (in trasferta o nel proprio spazio domestico)”, ad esempio “suggerendo l’alternanza di visite presso la sede aziendale secondo una periodicità consigliata in relazione alla specifica mansione svolta”.

Infine un altro aspetto che potrebbe contribuire a generare una situazione di stress per il lavoratore potrebbe essere, sempre nei casi in cui allo smart working sia associato il lavoro in solitudine, la preoccupazione derivante dalla possibilità di sentirsi male o di dover affrontare una situazione di emergenza.

A questo proposito si sottolinea che la riorganizzazione del lavoro, correlata alla diffusione del lavoro a distanza, richiede “un coinvolgimento non soltanto del RSPP ma, per aspetti legati ai rischi di stress lavoro correlato collegati a rischi psicosociali, un contribuito pro-attivo da parte del Medico Competente”; ad esempio con riferimento alle “visite mediche programmate nell’ambito della sorveglianza sanitaria”.

Fonte: PUNTO SICURO