Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge 26 settembre 2025, n. 144 (in vigore dal 18 ottobre 2025), l’Italia compie un primo passo verso l’introduzione di un salario minimo legale per comparti produttivi, in attuazione della Direttiva (UE) 2022/2041.
Questa legge delega apre scenari nuovi e rilevanti sia per datori di lavoro che per professionisti HR e consulenti del lavoro, incidendo su temi centrali come:
- la determinazione dei minimi retributivi,
- il ruolo della contrattazione collettiva,
- i mancati rinnovi contrattuali,
- e i meccanismi di controllo e informazione.
Vediamo di seguito gli aspetti principali e le implicazioni operative.
Un nuovo approccio al salario minimo: da chi firma a chi applica
La vera novità del provvedimento è lo spostamento del focus: non più la rappresentatività delle parti sociali, ma la diffusione applicativa dei contratti collettivi. In altre parole, sarà il CCNL più applicato per categoria (in base al numero di imprese e lavoratori) a definire il trattamento economico complessivo minimo, considerato conforme all’art. 36 della Costituzione.
Attenzione: si parla di trattamento economico complessivo e non solo di “minimo tabellare”. Sarà quindi necessario chiarire, in sede di decreti attuativi, quali voci retributive andranno considerate.
Categorie di lavoratori e comparti produttivi: il nodo da sciogliere
Per rendere operativa la norma, sarà fondamentale stabilire le categorie di lavoratori o i comparti produttivi a cui riferirsi.
Ad oggi, il sistema CNEL individua una quindicina di grandi settori, ma nella pratica vi sono oltre 250 CCNL attivi, con diversi livelli di diffusione:
- 29 CCNL “grandi” (oltre 100.000 lavoratori),
- 70 “medi” (10.000–100.000),
- 163 “piccoli” (500–10.000).
Esempio nel settore alimentare: coesistono quattro CCNL ampiamente applicati, con profonde differenze retributive. Quale sarà considerato “di riferimento”?
Estensione ai lavoratori non coperti da contrattazione
La norma prevede che, anche in assenza di contrattazione collettiva diretta, si applichino i trattamenti minimi dei CCNL “affini”, per attività analoghe.
Una misura che punta a contrastare il dumping contrattuale e la concorrenza sleale, soprattutto nei settori meno tutelati.
Contratti scaduti: incentivi e poteri sostitutivi
Due ulteriori innovazioni riguardano il tema dei rinnovi contrattuali:
- Strumenti di sostegno al rinnovo dei CCNL scaduti, anche tramite incentivi economici per compensare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori.
- Possibilità di intervento diretto del Ministero del Lavoro, qualora un contratto sia scaduto da tempo o manchi del tutto, con la definizione di un trattamento economico minimo sulla base di CCNL “affini”.
Le criticità e i dubbi applicativi
Se da un lato l’obiettivo della norma è quello di estendere in modo generalizzato i trattamenti economici minimi, dall’altro non mancano elementi critici:
- Il parametro del “contratto più applicato” può non garantire automaticamente la qualità del trattamento;
- Si supera il principio di rappresentatività, base storica della contrattazione collettiva in Italia;
- Il rischio è che si consolidino contratti formalmente diffusi ma sostanzialmente deboli in termini di tutele.
Che cosa cambia per le aziende e i consulenti?
Per imprese e professionisti sarà sempre più importante:
- Monitorare il CCNL applicato e la sua diffusione reale nel settore;
- Verificare la conformità del trattamento economico complessivo rispetto ai parametri minimi che saranno stabiliti;
- Anticipare gli impatti di eventuali interventi ministeriali in assenza di rinnovi contrattuali.
Normativa di riferimento
- Legge 26 settembre 2025, n. 144 – Legge delega sul salario minimo e rafforzamento della contrattazione collettiva.
- Direttiva UE 2022/2041 – Relativa a salari minimi adeguati nell’Unione Europea.
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Fonte: Edotto.com